Mario Sorazzo da Brokkolino: l’eroe ignoto della disco.
La storia inizia quasi cento anni fa in provincia di Palermo, Italia. Era la fine degli anni Venti del secolo scorso. Erano i giorni in cui nella testa di Domenico detto Mario crescevano i sogni, così come i gradi di separazione dal profumo delle arance e delle zagare della sua terra, odore che lo scirocco spargeva su quell’angolo di mondo antico.
Erano tempi di emigrazione massiccia verso il Nuovo Mondo per i paisà. Come era stato per il cugino Franco e lo zio Micuzzo.
Profumo d’America e cartoline alla Caruso, nastri d’argento e nervi d’acciaio. Presto i futuri coniugi Sorazzo avrebbero cominciato una nuova vita, lasciandosi alle spalle Campofelice di Fitalia per Nuova York, ed il piccolo Calogero, che ancora non era ancora previsto, sarebbe arrivato, dopo qualche tempo, tanto inatteso quanto fausto, cittadino del nuovo mondo.
Come suo padre prima di lui, dopo un’infanzia di solidi principi e scazzottate coi monelli ’round the corner, Cal – così lo chiamavano i suoi homeboys – si sarebbe fatto casa e strada a Mulberry Street, vivendo il suo sogno americano tra juke boxes e wayfarer, nell’allora incrollabile mito del progresso.
Dopo il padre, e come il padre, entrato nell’associazionismo di mutuo soccorso, lavorava sodo per la comunità, e la sera usciva, impomatato e fiero dei suoi blue jeans e della sua t-shirt.
La Corea era un eco lontano, l’orizzonte si perdeva oltre il ponte e Broccolino, si soleva uscire il sabato sera e cercar le donnine, tra i bar e la velocità relativa di un mondo in accelerazione.
In tutto questo, all’inizio del decennio che avrebbe catapultato il primo uomo americano nello spazio e l’umanità sulla Luna – almeno a sentire il Presidente e quelli della NASA, in barba a quei cani di comunisti – in una delle tante scorribande nel Lower East, apparve Hannah. Donna forte, avrebbe mozzato il fiato e la lingua anche a James Dean, perfetta new yorker: padre ebreo polacco e madre cattolica irlandese. Una furia di riccioli corvini e lentiggini, come stelle intorno agli occhi porte del cielo.
Dopo un corteggiamento durato almeno un paio di barili di birre scure, una rissa o due giù al pub in East 6th Street per entrare in confidenza con la comunità locale, successe il prevedibile, e Hannah e Cal fecero quello che due ogni buon cristiano del tempo avrebbe fatto a cuor leggero.
Era un maschio, e dopo un’agguerrita lotteria di probabilità più o meno valide, lo chiamarono Mario.
Mario nacque di maggio, dopo un inverno molto rigido, nel cuore di una primavera che dava filo da torcere a quella che si anticipava come un’estate torrida nel dedalo di strade del quartiere. Primo figlio di suo padre e di sua madre, Mario era un bambino serio, divertito nel pensare, osservare e custodire frammenti di storie, dettagli. Sarebbe stato un buon fotografo. O uno psicologo.
Anche se schivo, amava la gente e le sue follie. Amava la musica. Aveva nove anni quando Armstrong ed il suo piccolo passo lunare lo avevano lasciato a bocca aperta. Ma quello era nulla, se comparato a quella volta, la prima di una serie che sarebbe stata molto lunga, che mise piede in una discoteca, anni dopo.
Era con il suo amico John, un deejay portoricano che aveva incontrato all’Art School, e con loro c’erano sempre un sacco di ragazze, e qualche tipo strano ma simpatico. Come François, quel francesino appena arrivato in città, il batterista che faceva il barman a giro, che John aveva conosciuto in un posto in cui i metteva i dischi, di cui tanto si parlava a Manhattan.
Qualche tempo dopo, tutti e tre, Mario, John e François, finirono a far festa in quel garage riadibito a discoteca, che si diceva avesse l’impianto migliore di NYC. Fatte fuori diverse birre, qualche casino, un paio di belle ragazze, un pò di neve e due risate, andarono a salutare Larry, il padrone di casa.
François per caso aveva iniziato a fare il deejay qualche tempo prima, come anche Mario, che amava la musica, ed osservava silente e divertito le mosse di John. Lui faceva furore in più posti. Mario invece collezionava dischi, tutto quello che c’era di ballabile e travolgente, e li ascoltava ogni qualvolta poteva, nel retrobottega del laboratorio di Cal, dove aveva il suo impianto prima di andare a vivere da solo, a Brooklyn.
Nella sua nuova casa i giradischi erano ben posizionati in cucina, e si allenava parecchio, aveva gusto. Suonava spesso una miscela di disco, funk, rock, black music e dub.
François lo andava a trovare spesso, per fumare qualche joint insieme ed ascoltare le sue trovate musicali, facendone delle cassettine. Una sera John doveva suonare in disco ma stava malissimo, e aveva bisogno di un sostituto, e lo chiese a Mario.
Mario quella sera non stava molto bene, era un gran freddo laffuori, girava una brutta influenza e lui era incerto sul da farsi, aveva voglia di accettare, e stava giusto per farlo, quando John lo chiamò e gli disse di non preoccuparsi, perché lo avrebbe sostituito François, quella sera.
Il francesino, ben memore dello stile di Mario e dei suoi dischi, che tanto aveva ascoltato e studiato, non ebbe difficoltà a gestire la serata e raccolse un grande successo, e quello fu solo il primo di una lunga serie di ingaggi.
Sono passati molti anni da allora, e Mario, seppure non sia diventato una star della scena club, con il suo fiuto per il business e la sua tenacia, aprì una pizzeria a Brooklyn, giù nella South 3rd Street, in un giorno di maggio, non lontano dalla suo appartamento.
Ha collezionato molti dischi, in particolare di funk e boogie funk, e dai giradischi della sua cucina non ha mai smesso di suonare, prima di sparire, misteriosamente, senza lasciare traccia. E tutti da quelle parti, ogni tanto, parlano ancora di Mario, della sua musica e del suo slang.
Recentemente, in quell’appartamento della South 3rd ci è andato a vivere il nostro amico L'Oggetto, che ha così ritrovato una buona parte della collezione di Mario, e un totale di posta inevasa a nome di Mario Sorazzo. Dopo averne conosciuto e ricostruito la storia, ce l’ha raccontata.
A Williamsburg, nel suo quartiere, ancora si parla delle pizze sempre rotonde e ben farcite di mozzarella, vera gioia dei clienti, e della musica che usciva dalla cucina dell’appartamento di quel ragazzone italoirlandese, sebbene non si sappia quanto di questa storia sia realtà e quanto fantasia.
Se l’avete ascoltata fin’ora, però, sappiate che adesso vi spetta il nostro podcast numero 50, regalo di quasi sessanta minuti a spasso tra i dischi che Mario amava tanto, e che avrebbe suonato probabilmente in una serata all’inizio degli anni Ottanta, se ne avesse avuto l’occasione. Tutto proviene da quella cucina, dove L’Oggetto ha installato i suoi giradischi. Forse qualcuno troverà tutto un pò strano, qualcuno assurdo, ma, come ancora oggi in South 3rd si tramanda, vi diciamo
Yo, put sum more muzzarella on that muthafuckin shit!
DOWNLOAD: The Blast Podcast #50: L’Oggetto – South 3rd Kitchen Mix
The Blast Podcast #50 – L’Oggetto in South 3rd Kitchen Mix da Strettoblaster su Mixcloud