Nuovo podcast, nuova corsa. E di corsa, dopo un pò che ci inseguivamo, troviamo il modo di scambiare due battute con Emshi. Vi portiamo quindi il mood di un designer votato al beatmaking, con una passione (in)sana per il cibo e un’umanità rara. Approcciando Omar, questo il suo vero nome, si ha la netta sensazione di entrare a contatto con una persona autentica – o rial, come scherzosamente ama dire lui storpiando parole e concetti – un giovane cresciuto coi valori della vecchia scuola, proiettato nel futuro, scrupoloso in quel che fa e nel modo di proporsi. Non scambiate la serietà per modi affettati. Eclettico eppure jazz, raffinato e ruvido insieme, il sound è un tutt’uno con l’artista ed il suo lavoro.
Nel darti il benvenuto, iniziamo a metterti a tuo agio: vai, presentazione!
Mi chiamo Omar, ho quasi finito i miei 27 anni e nella vita sono un graphic designer laureato al Politecnico di Torino. Amo il buon cibo (specialmente se “porno”), i beat e le belle signorine. Investo molto del mio tempo per curare l’immagine di Emshi, anche se ammetto che dovrei dedicarmi alla mia tesi di Laurea Magistrale per il Politecnico di Milano.
Ok, musica, design, cibo…iniziamo dalla musica: come inizi e sviluppi la passione?
Nel ’96 mio padre mi regalò una chitarra classica per bambini, ma professionale, sostituita, successivamente, da una più grande. Infatti, soltanto più tardi, all’età di 12 anni, questo strumento coinvolse la maggior parte del mio tempo durante gli anni da teenager (ne comprai altre due, ma elettriche). Molto presto, in maniera sempre autodidatta, mi avvicinai anche ad altri strumenti, come il piano, il basso e la batteria. Superati i 16 anni mi appassionai in parallelo alla computer music, ampliando le mie conoscenze anche sul mondo dell’effettistica, vantando una pedalboard che a soli 19 anni aveva raggiunto già una ventina di pedali. Una volta iscritto all’università, quest’ultima tolse davvero molto tempo alle prove con i gruppi in cui suonavo, perciò per non soffocare la mia ossessionata voglia di comporre, cominciai a produrre autonomamente utilizzando programmi come Fruity Loops, avvicinandomi maggiormente all’Hip Hop abstract nel tardo 2009. Poi conobbi Maschine e diventò tutto più facile e veloce. Ad oggi produco moltissimo, quasi tutti i giorni. Quando non ho un disco a portata di mano, non resisto alla tentazione di comporre un beat suonando soltanto gli strumenti (senza sample). Mi diverte molto quando mi propongono di remixare dei pezzi. Li vedo come occasioni in cui poter esibire la mia libera interpretazione del brano. Quando ascolto una produzione mi soffermo sul taglio dei sample e sulla stesura del groove, poi ascolto moltissimo la batteria e il suo swing. I beat sono un mezzo con il quale ho preso ormai familiarità. Mi permette di esternare molto bene le sensazioni e i sentimenti. Proprio come uno scrittore con la penna e un pittore con i colori.
Il tuo tocco è riconoscibile: quanto c’è di design nella tua musica? Il tuo background ti influenza nella composizione?
Di “design” mi piace parlare in senso di progettazione, in senso di astuta ricercatezza, cura del dettaglio attinente alla realtà. Sono un autodidatta musicalmente, ma voglio tenere un’immagine coordinata che dia continuità a quel che faccio. Nel suono come nelle immagini ad esso abbinate, ovviamente. Mi piace creare un gusto. Non sono per l’estetica lo-fi, nel senso, mi piace molto e capisco che nasce da una serie di urgenze creative, senz’altro, ma non mi interessa. Scelgo accuratamente i titoli dei pezzi, curo i dettagli. Tendo ad evitare le trasposizioni dall’hard disk al web. Comporre è diventata una vera e propria esigenza capace di farmi stare bene, e nonostante produca molto, ho sempre cercato di prediligere la qualità alla quantità. Sono molto severo e selettivo quando si tratta della mia musica, e quando ti dicono che quel beat ha trasmesso qualcosa, beh, significa che sei arrivato a toccare l’animo dell’ascoltatore. Ai miei beat amo associare spesso dei contenuti video divertendomi a sostituirne i significati creandone dei nuovi, un po’ come ai suoi tempi faceva Duchamp con la sua arte. Come avrai notato, uso molti giochi di parole, wordplay, come dicono gli americani, e in questo sono stato molto influenzato dal surrealismo.
E, non per niente, anche il cibo ad un certo punto entra in partita, no?
Beh, parliamo di foodporn! Chi mi conosce sa che amo molto il cibo. Amo fotografarlo, e tengo un profilo top secret su Instagram dove mi diletto con i miei scatti. Sono un amante dei pancake, da alcuni miei amici richiestissimi..Li preparai a Roma in occasione di Caffettino, progetto del collettivo Beat Soup a cui ho partecipato qualche tempo fa. Quella volta li ripresi e li utilizzai come teaser del progetto in chiave molto “porno”. Quella è stata un’occasione per dare un indizio sull’identità dell’ospite quando era ancora segreto. In generale, comunque, col cibo ci gioco moltisso, basti vedere il titolo del mio primo tape ufficiale, Satan Eats Marshmallows. All’interno trovi una traccia intitolata Foodporn. E non è o dolce o salato. E’ dolce e salato insieme. Pancake + Bacon, e ciao!
Curiosità: parliamo di BeHumanDon’tQuantize? Che cos’è?
E’ il contenitore della mia creatività, è un qualcosa in cui chi ha lo stesso mood si può ritrovare. Ascoltando il suono di Detroit, specialmente all’inizio, mi sono sempre chiesto “Ma come cazz’è quantizzata sta roba?!” (nella musica digitale, la “quantizzazione” è il processo di correzione delle imprecisioni delle note eseguite, in particolare per le parti ritmiche, nda). C’è dell’human feeling. Avvicinandomi al beatmaking, all’inizio, cercavo di capire le cose in senso matematico, e mi sbagliavo. Una volta ero con DJ Taglierino, mio amico e sound engineer di fiducia, a fare cose in studio, e sovraragionavo sulle quantizzazioni, gli facevo mille domande. E lui, dopo un po’, mi ha detto “Omar, sii di pancia, non ragionare!”. Da lì, sperimentando, andando oltre la “griglia” della quantizzazione, ho capito che la direzione per me era quella. Togliendo la funzione “quantize” dal tuo campionatore o editor togli la rigidità di una struttura quantizzata dal computer, componendo liberamente: tu usi sì una macchina, ma il risultato di quell’uso ti dà un qualcosa di unico e irripetibile. Io vengo dall’esperienza live con le band, e lì non c’era nessuna griglia. Suonavi, punto. In maniera umana. Il design entra in gioco di conseguenza: ho fatto di un modo di pensare un logo, e in primo luogo ho prodotto degli snapback, poi delle t-shirt, e via dicendo. Non lo vedo come un marchio, ma come un mood, un qualcosa di versatile.
Cosa stai ascoltando ultimamente?
Un botto di roba! Da zero, ad esempio, sto riascoltando Knxwledge ed i suoi primissimi lavori…scavo molto, in generale, nella soul music…Anche nel mix che ho preparato per strettoblaster, ho cercato di tirare fuori la voglia di ricercare qualcosa che vada al di là del solito…mi piace cercare le sfumature del suono, non mi sono fatto problemi a metterle nel mix, l’impronta è molto beat-oriented…diciamo che vorrei il mix fosse un invito all’ascolto e alla scoperta di cose nuove, per chi non le conosce, in maniera articolata…se qualcosa stuzzica l’ascolto, magari andate a cercarvi l’artista, approfondite…
Progetti, cose, rose, fiori?
Ho già due tape pronti e devo mandarli in studio. Sono combattuto tra lasciarmi andare all’estetica lo-fi o tenere botta. Io sono per la quality over quantity, te l’ho detto. Ho rispetto di chi ascolta, ma questo va in conflitto con la mia produzione, che è enorme. Produco ogni giorno. Forse, a partire dal 2016, mi fregherà di meno e farò uscire più roba…
Chiusura e spazio alla musica. Messaggio alla nazione?
Siate umani! (risate…) E RIAL! 🙂
Googlate Emshi, e buon appetito.
DOWNLOAD: The Blast Podcast #92 – Emshi in (B)eat Em All
The Blast Podcast #92 – Emshi in (B)eat Em All by Strettoblaster on Mixcloud